Hans Watte

Hans Watte

Hans Bella nasce il primo aprile 1980 a Kristianstad, in Svezia, a cento chilometri da Malmoe. La madre, Ludwiga Bella, era tedesca e aveva seguito, senza sposarlo, il padre di Hans, un militare statunitense, dalla Germania alla base navale di Karlskrona.

A Kristianstad il giovane Hans ha modo di vedere più volte il Mariner Museum e, oltre a oggetti inerenti il mare, ha occasione di ammirare tutta una serie di calchi di statue che colpiscono la sua immaginazione e di cui si ricorderà al momento di diventare allievo del pittore livornese Luca Bellandi. Il padre, nel 1989, viene trasferito negli Stati Uniti a Newark e Hans, che da poco ha perso la madre in un incidente stradale causato da una strada ghiacciata, lo segue e inizia ad appassionarsi di pittura. Frequenta i musei di New York, ma, visto che il padre è totalmente assorbito dal suo lavoro per il Governo Federale, soprattutto la strada dove apprezza le opere dei padri del graffitismo americano (Keit Haring e Jean-Michel Basquiat) e di Edwin Parker Jr (Cy Twombly).rnCosì inizia a dipingere su piccole tavolette. Cose semplici, frammenti di vita, a volte pop e a volte underground ovvero ispirate alla società parallela del sottosuolo che tanto lo affascina.

Ha 20 anni quando il padre viene nuovamente trasferito, questa volta in Italia. Hans, che nel frattempo ha mutato il suo cognome artistico in Watte (le alghe lasciate sul bassofondo delle maree), inizia ad avere dei problemi psichici per questo suo continuo girovagare senza una guida sicura tanto da essere più volte ricoverato. Scopre però su internet le opere del pittore livornese Luca Bellandi e soprattutto le sue donne-statua, così simili ai gessi del Mariner Museum che aveva amato. Si stabilisce in provincia di Pisa ed ottiene di diventare suo allievo. Il suo rapporto con il maestro è buono, ma il suo carattere introverso lo porta ad isolarsi. Dipinge, ma non vuole vedere nessuno. Nella sua cascina in campagna i dipinti si accumulano, ma si rifiuta di venderli. Solo recentemente ha acconsentito a farlo a condizione che nessuno possa risalire fino a lui.

Divagazioni e scrittura dell’anima

“Se guardi di sfuggita le sue “divagazioni” hai la sensazione di trovarti di fronte a dei sassi di fiume, di quelli che raccogli e poi tasti volentieri con le mani perché ti donano sensazioni con le loro scabrosità ed imperfezioni. Sassi a cui lui non dai, però, eccessiva importanza e che, al massimo, se sono abbastanza piatti, possono servire a giocare a rimbalzello sull’acqua. Solo osservando attentamente quei dipinti a volte interrotti, appena accennati, a volte voluminosi di forme come sapevano fare solo i grandi maestri del Nord Europa, ci si rende conto che un sasso così lo trovi raramente sul greto di quel grande fiume che è la storia dell’arte. Sono ciottoli di carbone ancora tutti da comprimere perché rivelino appieno le loro sfaccettature diamantate ed enigmatiche. Scritti in tanti modi che possono sembrare diversi, ma in fondo sempre uguali. Modi da una parte antichi e densi di reminiscenze letterarie e pittoriche e, dall’altra, al di fuori degli schemi e così ultrà da ricordare le terre di frontiera e i graffiti metropolitani di Keith Haring, il giovane artista statunitense sparito troppo presto, fortunato lui, per cedere al rischio della ripetizione del gesto. Sassi che, in fin dei conti, non sembrano avere una gran voglia di raccontare la propria storia a “tout le monde”.

E allora devi saperla leggere fra le righe, nelle figurine distorte che potrebbero essere al contempo angeli custodi o spettri della mente, nelle silhouttes dalle forme generose sovrastate dai sogni della memoria, nei segni lievi, tragici, trafitti, torbidi; segni che appaiono infantili, ricordo di sensazioni vissute, quasi messi lì a caso, e che invece sono scelta precisa, simbologia, astrazione.

Una realtà in cui i simboli sessuali appaiono con frequenza, ma non sembrano messi lì per stupire o scandalizzare visto che, nel contesto dell’opera, pur essendo elementi primari, si amalgamano con i colori delle tele, sempre netti e tranchant. Sono elementi di mediazione, ma anche di libertà, per metà frutto dell’istinto e per metà della mente, in parte astratti e in parte brutalmente anatomici, ma comunque utilizzati per relazionare due estremi.

Perché, in effetti, i dipinti di Hans Watte riescono a donare al contempo, attraverso campiture e zone d’ombra un senso d’ossessione e inquietudini sottili. Possono essere definiti oggetti – idea che tentano di superare le barriere dell’inconscio per diventare segno, scrittura dell’anima.”

Alberto Gavazzeni

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